Allevare il talento a Zingonia fabbrica di talenti

riportiamo un' articolo di Francesco Costa, con un' intervista a Mino Favini del 2016

Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, dice. Allora da quali? Il posto in cui cercare questa risposta si chiama Zingonia.

Si trova vicino Bergamo ma non è una città né un quartiere. Fu costruita negli anni Sessanta da un imprenditore romano, Renzo Zingone, con una certa dose di megalomania: doveva diventare la città ideale, perfetta integrazione tra lavoro, casa e attività ricreative.

Divenne invece un postaccio che per uno strano caso ospita però uno dei migliori settori giovanili d’Europa: quello dell’Atalanta.

L’uomo che lo ha reso tale, si chiama Mino Favini.

La risposta Favini ce l’ha. Un giocatore di 10 anni non si giudica da come tira i calci di rigore, ovviamente, ma nemmeno da quante volte sa mettere il pallone all’angolino o da quanto è alto. Dopo un’onesta carriera da calciatore, vent’anni passati a dirigere il settore giovanile del Como e vent’anni a fare lo stesso all’Atalanta, Favini dice che bisogna guardare lo stop: da quello si giudica un giocatore. «In quel gesto c’è il rapporto naturale che il bambino ha con la palla. Testa-palla, petto-palla, coscia-palla. E poi il piede: interno, esterno, punta, tacco, suola».

Favini le chiama «attitudini innate». Si può lavorare per migliorare tutto ma «uno che nasce con buone attitudini è più predisposto ad accettare il tipo di lavoro del nostro percorso formativo».

In questi anni di crisi del calcio italiano la discussione sui vivai è stata una specie di perpetuo sottofondo: un po’ per buon senso, certo, ma un po’ anche perché è un concetto apparentemente innocuo, vago e banale al punto da farsi ripetere senza fatica. Chi potrà mai essere contrario a valorizzare i giovani? Se siamo tutti d’accordo, perché non si comincia? Come si comincia? Osservare il funzionamento del vivaio dell’Atalanta – il primo in Italia e l’ottavo in Europa secondo uno studio recente – può fornire qualche indizio.

Innanzitutto ci vogliono soldi. Il settore giovanile dell’Atalanta costa da solo ogni anno poco meno di 4 milioni di euro: da tempo mezza Serie A fa l’intero calciomercato estivo spendendo meno. Poi ci vogliono strutture adeguate: il bellissimo centro sportivo dell’Atalanta comprende sette campi – visitarlo fa uno strano effetto: c’è un campo di calcio, più avanti ce n’è un altro, poi ce n’è un altro ancora, poi un altro, eccetera – ed è stato appena rinnovato con un investimento da 10 milioni di euro e la costruzione di una nuova palazzina dedicata interamente al vivaio.

 

Infine ci vogliono pazienza e idee, spiega Favini. «Noi siamo l’esatto contrario dell’Udinese. Loro prendono giocatori già selezionati, noi invece partiamo dai ragazzini di 8 anni e li portiamo fino al campionato Primavera, l’ultimo passaggio del settore giovanile». L’esempio perfetto è Gianpaolo Bellini, entrato nei Pulcini e oggi capitano dell’Atalanta in Serie A. All’altro estremo ci sono i grandi club, che comprano – spesso a caro prezzo – molti giocatori di 16 o 17 anni. «La differenza è che i nostri ragazzi crescono per diversi anni seguendo gli stessi criteri di lavoro», spiega Favini con un tono a metà tra l’allenatore consumato e il nonno, «seguiti da persone che hanno giocato a calcio ma che hanno anche una preparazione culturale importante».  

L’elenco dei calciatori prodotti negli ultimi vent’anni dal settore giovanile dall’Atalanta è sterminato: da Baselli a Tacchinardi, da Montolivo a Bonventura, da Pazzini a Zaza fino a Zauri e i gemelli Zenoni, ma davvero si potrebbe andare avanti a lungo. Hanno tutti una cosa in comune, di cui Favini è molto fiero: sono buoni calciatori, non fenomeni. «Noi non creiamo fenomeni perché i fenomeni non si creano. Noi formiamo dei buoni giocatori. La più grande soddisfazione è quando mi dicono che un nostro ragazzo che è andato a giocare in prestito si comporta bene, ha buona volontà e dedizione». Questa è anche la ragione per cui la società quando può ricompra sul mercato i calciatori formati nel suo vivaio: la scuola Atalanta è una garanzia. Magari non diventerai un campione, ma se hai buone «attitudini» e molta voglia di lavorare l’Atalanta ti renderà un buon calciatore.

 

I ragazzi del settore giovanile dell’Atalanta sono quasi tutti bergamaschi o comunque lombardi. Quelli che vengono da fuori sono meno di 20 e vivono a Bergamo in una struttura gestita dalla diocesi. Il ruolo in campo si decide non prima dei 14 anni. Gli allenamenti tecnici si basano sulla ripetitività dei singoli gesti; per ogni ragazzo viene aggiornata una scheda ogni tre mesi. Tutti i ragazzi sono seguiti da una psicopedagogista e da tre tutor che controllano formazione e rendimento a scuola.

Favini dice che il lavoro sulla personalità negli ultimi anni è diventato più complicato. «Nel nostro mondo sono entrate persone che non c’entrano niente col calcio: i procuratori. A loro non costa niente lusingare un ragazzo e la sua famiglia: da lì nascono problemi ai quali non eravamo pronti. Noi facciamo notare i difetti prima dei pregi; i procuratori fanno l’opposto. Spesso dico ai miei ragazzi: leggete le formazioni dell’Interregionale. Molti di questi ragazzi erano ritenuti dei fenomeni, almeno da qualcuno fuori da qui. Adesso dove giocano? Nei dilettanti. Si tratta di ragazzi di buonissima qualità, però non hanno capito che occorreva qualcosa di più».

Secondo Favini c’è un concorso di colpa. Da una parte l’esplosione del mercato dei calciatori minorenni ha reso più difficile un’adeguata formazione della personalità. Dall’altra parte c’entrano gli errori degli allenatori come lui. «Pur di vincere questo o quel torneo giovanile si è trascurata l’espressione del gioco. A volte l’importanza del risultato ha coinvolto anche me, perché vincere è bello. Qualche anno fa però mi sono accorto che stavo sbagliando qualcosa». Si è arrivati così a una generazione di calciatori con fragilità non solo caratteriali ma anche tecniche. «Hai visto la partita che ha fatto la Croazia contro l’Italia a Milano? Si notava immediatamente la facilità con cui i croati giocavano il primo controllo e la nostra difficoltà di gestire questa benedetta palla. Il controllo ti consente di effettuare velocemente la seconda giocata. Controllo e giocata, controllo e giocata. Se tu non controlli bene la palla, hai bisogno di toccarla ancora e perdi i tempi di giocata. Prendi Pirlo. Pirlo è Pirlo perché ha i tempi di giocata: col movimento del corpo già ti spiazza il primo avversario». In un settore giovanile che si vanta di produrre solo buoni giocatori, l’unico fenomeno che Favini dice di aver allenato è Domenico Morfeo. «Sicuramente il ragazzo più dotato che sia passato da qui. Non aveva una gran struttura fisica però era intelligentissimo. Capiva prima di tutti cosa sarebbe successo dopo due passaggi e là si faceva trovare». Chiedere a Favini i nomi dei prossimi calciatori che l’Atalanta lancerà in Serie A è inutile: non sarebbe giusto tenerne fuori qualcuno, dice, e non farebbe bene a quelli nominati. Ma c’è forse un’altra ragione, tra le righe di una cosa che Favini dice spesso: «Tutti giocano a calcio. Pochi giocano e vedono. Pochissimi giocano, vedono e prevedono»

L' ANGOLO DEL SETTORE TECNICO.

In lavorazione una nuova sezione del nostro sito, riservata ai tecnici, e consultabile da tutti, nella quale ci piace far vedere a tutti, senza gelosie .... "cosa combiniamo" ! 

Cosa scaturisce dalla nostra continua ricerca di aggiornamento, dalla nostra professionalità, cosa proponiamo quotidianamente ai vostri ragazzi. 

ALLENATORE o FORMATORE ???

Publichiamo un estratto dal manuale della metodologia FRS, perchè ci sembra molto attinente al nostro modo di veder il ruolo del formatore calcistico.

 

" ........FRS differenzia chiaramente il ruolo di ALLENATORE da quello di FORMATORE !!!!

L’allenatore è colui che tramuta le proprie idee e convinzioni calcistiche in gioco e per farlo sceglie i giocatori più adatti a raggiungere il risultato sportivo, è

colui che allena le capacità tecniche già sviluppate e intrinseche dei propri giocatori e li mette in condizione di sviluppare il proprio gioco a livello fisico e

tattico, é quindi il protagonista principe delle prestazioni sportive della propria squadra.

Il formatore è colui che è disposto a non essere il protagonista principale del gioco della propria squadra, ma che lascia ai suoi giocatori questo ruolo. Per

questo un formatore deve a differenza di un allenatore, NON trasmettere il proprio calcio ma essere in grado di capire e sviluppare il calcio dei propri

giocatori .

Indipendentemente dalla fascia d’età della squadra con la quale stiamo “lavorando”, un formatore deve essere consapevole di avere giocatori con

caratteristiche morfologiche, cognitive, fisiche, tecniche e sociali molto diverse fra loro, sia per doti naturali che per componenti di sviluppo e capacità di

apprendimento. Già per questi fattori appare evidente quanto siano differenti i due ruoli, in più, tranne in qualche raro caso, avrà a disposizione giocatori

che non ha scelto !

Noi siamo fortemente convinti che un formatore NON può tramettere il proprio calcio e NON può insegnare calcio, ma che un VERO FORMATORE ha il compito e il dovere di mettersi al servizio dei propri “allievi” con l’obbiettivo assoluto di aiutarli a sviluppare il calcio che è in loro, rispettando le loro caratteristiche naturali e le loro idee , mettendo a disposizione le proprie competenze, gli strumenti e i mezzi necessari affinché le capacità individuali possano progredire nei diversi aspetti tecnici, tattici, fisici, cognitivi e svilupparsi all’interno di un gioco che deve tener conto

assolutamente dell’aspetto collettivo / squadra .

La nostra squadra dovrebbe essere una squadra che NON gioca con schemi e NON gioca in funzione dell’avversario è una squadra che tramite il proprio FORMATORE ha dei concetti di gioco ben chiari, applicabili da tutti i sui componenti anche se con un diverso grado di efficacia, il FORMATORE, non modifica o snatura il comportamento o il gioco della squadra a dipendenza del risultato o dell’avversario, questo perché il suo primo obbiettivo è la

progressione dei propri giocatori e della proprio collettivo e per questo deve mantenere stabilità e dare continuità al proprio programma di sviluppo calcistico.

Il formatore è consapevole che tutti noi siamo diversi, molto diversi uno dal altro, quindi NON può insegnare calcio, altrimenti insegnerebbe ad essere come lui ad una persona totalmente diversa da lui, che ma che non può essere come lui semplicemente perché è diversa !!!

Insegno agli altri il mio modo di calciare ? o cerco di far capire ad ognuno come provare l’efficacia del proprio modo di calciare ? ......................"

 

Poche righe che però ben sintetizzano il ruolo del tecnico nei settori giovanili, o almeno come dovrebbe essere, o meglio come vorremmo che fosse  ...... 

Ecco; con tanta fatica, per superare un vecchio modo di fare, vecchie abitudini, vecchie "credenze" stiamo portando avanti a Campitello la nostra piccola "rivoluzione copernicana" ... dopo anni di successi effimeri, di campionati mettendo al primo posto la vittoria a tutti i costi, subordinando alla ricerca del risultato comportamenti ed atteggiamenti, lavoro settimanale,  crescita individuale ... stiamo cercando di riportare al centro del "progetto Campitello" il "calciatore" ...la crescita del singolo, per dare ai nostri ragazzi gli strumenti necessari per potersi giocare qualche carta in piu' ..

Con ciò ribadiamo, la domenica si và in campo per vincere ... sempre, comunque, contro chiunque, .. siamo pur sempre Campitello ..... ma non deve essere questo l'obiettivo principale dei nostri tecnici, il nostro risultato e "formare calciatori" . 

L’errore come momento di crescita: come e perché insegnarlo nelle scuole calcio
Pubblichiamo un interessante articolo di Paola Fracasso
Vediamo spesso bambini costretti a riproporre schemi troppo difficili per loro, e allenatori che si arrabbiano se i loro atleti non riescono ad eseguirli. Ma è davvero questo il modo migliore per favorire la crescita di un calciatore?
Molto spesso, nelle partite delle Scuole Calcio, si può notare l’attuazione di schemi di gioco impegnativi, che ricordano quelli degli adulti. Nei casi più estremi, dalla tribuna possiamo sentire anche le urla degli allenatori che rimproverano i bambini perché questi non riescono a eseguire le loro indicazioni o prendono iniziative “fuori dagli schemi” per risolvere una situazione. Ci siamo chiesti se questo tipo di atteggiamento possa essere positivo o meno per una bambino. E soprattutto, ci siamo chiesti quale sia il modo migliore per insegnare a un bambino a gestire l’errore.
Abbiamo rivolto queste nostre domande a un esperto: dottor Luciano Faccioli, Neuropsicologo dello Sviluppo e Istruttore di calcio UEFA B. Insieme alla dottoressa Corina Benini, educatrice e laureata in Scienze Motorie, Luciano Faccioli ha elaborato questo metodo di allenamento innovativo, raccogliendone i dettagli nel libro “Una nuova scuola calcio”.
1. Dottor Faccioli, in un post su Facebook, a proposito dell'imposizione di schemi ai più piccoli e dei rimproveri da parte degli allenatori quando questi schemi non sono correttamente eseguiti, lei ha scritto: “Molto francamente: pensiamo che insegnare calcio in questo modo produca grossi danni: ai bambini, ai genitori, alle società, al calcio”. Ci può illustrare questo pensiero? Perché crede che questo atteggiamento possa arrecare danni?
Per più motivi:
- L’attuazione di schemi implica la ripetizione “a memoria” di una procedura di soluzione, efficace per vincere le partite ma  non per formare giocatori di calcio (ma soprattutto persone) libere di pensare… un po’ come a scuola.
- Le urla contro gli errori di attuazione di movimenti o soluzioni pre-ordinate passa l’aberrante idea che un processo di soluzione, perché sia efficace, debba essere per forza pianificato, programmato ed eseguito, mentre in una situazione complessa come una partita di calcio (così come nella vita, tra l’altro) è difficile prevedere. Prevale, quindi, chi si adatta meglio: programmazione e pianificazione sì, ma flessibile e adattiva
- Le sgridate per le iniziative personali e creative non fanno altro che instaurare un clima emotivo negativo e di paura che andrà a condizionare, deviando o bloccando, i processi cognitivi di pensiero. In questo modo si uccide la creatività, si instaura la paura dell’errore.
Tutto questo si riversa:
- sul percorso di sviluppo e di crescita dei bambini (pensiero verticale, paura dell’errore, deresponsabilizzazione, futuro abbandono)
- sull’idea di calcio (e di vita) dei genitori; le squadre di scuola calcio che eseguono schemi prestabiliti solitamente vincono contro quelle dove i bambini sono lasciati liberi di decidere e i genitori si convincono che quello sia il modo di insegnare calcio ( vita) ai bambini… io sono convinto invece che si debba insegnare a pensare più che ad eseguire.
- Sulla società: una società fatta da persone che eseguono passivamente le consegne è piatta e destinata al declino; una società fatta di persone creative è più effervescente e feconda… sicuramente più difficile da gestire.
- Sul calcio: perché in questo modo si formano giocatori esecutori senza fantasia ma che eseguono il loro compitino senza prendersi rischi e responsabilità.
2. Come insegnare, quindi, la gestione dell’errore. O anche della tensione pre-gara?
Lasciando liberi di decidere senza punire, o rimarcare ed evidenziare l’errore; l’errore va certamente corretto, ma bisogna vivere l’errore come un momento di crescita e un’opportunità di miglioramento e non come uno stigma e una eventualità da evitare, conseguentemente la tensione pre-gara si scioglie. Se si va in campo con la consapevolezza di poter sbagliare senza la spada di damocle sulla testa si entra in campo leggeri e propensi a provare, rischiare, DIVERTIRSI… spesso ci si dimentica che si gioca (anche a calcio) per divertirsi. In questo modo l’ambiente è sereno, il clima è positivo e l’emotività positiva fa funzionare meglio anche le competenze cognitive, si ragiona meglio, si è meno tesi… e si fanno meno errori.
3. Un concetto che cercate di sottolineare spesso è l’importanza di lasciare il ragazzo libero dagli schemi. Perché?
Perché impari a trovare soluzioni e sia creativo, ma non solo. Da un punto di vista neuropsicologico l’apprendimento avviene per acquisizioni di competenze, in questo caso acquisizione di schemi di azioni motorie, tecnico-motorie, tattico-tecniche-motorie; ora, se io obbligo un bambino ad attuare uno schema di gioco lui acquisirà un numero di azioni limitate nel suo magazzino di memoria (chiamiamolo vocabolario motorio), se io lascio un bambino libero di decidere sicuramente metterà in atto molte più azioni e quindi alimenterà maggiormente la sua memoria rimpinguando parecchio il suo vocabolario motorio. Siccome il calcio è uno sport situazionale che, come abbiamo detto, si svolge in una situazione di alta complessità, sarà più pronto e reattivo chi avrà un vocabolario motorio più ampio perché la scelta della giocata sarà più fruibile e di veloce effettuazioni da parte di chi ha un vocabolario motorio più ampio.
4.Sostanzialmente vi fate promotori di un decentramento dall’allenatore al bambino. Quale riscontro avete avuto dagli allenatori?
Pochi allenatori sono pronti per un’idea di questo tipo, in molti (troppi ancora) sostengono che lasciare liberi i bambini crei caos.
Il concetto però è fare in modo che i bambini imparino naturalmente e da soli a gestirsi in campo in modo equilibrato e fluido dominando le variabili spazio-temporali da soli (ecco i giochi sosef). È un percorso più lungo, ma che porta frutti.
Piove ... ci alleniamo lo stesso ??
“Mister piove, si fa allenamento?" Tante volte mi hanno fatto questa domanda, e la mia risposta è sempre stata "CERTO!" 
Perché al giorno d'oggi un po' d'acqua spaventa così tanto? Partiamo dal presupposto che bagnarsi non fa male (altrimenti non dovremmo né lavarci, né farci il bagno d'estate), ciò che fa male è rimanere bagnati, fermi, al freddo, al punto che il calore disperso sia superiore a quello prodotto, abbassando quindi la temperatura corporea. Questa condizione è difficile che si verifichi durante un allenamento, in quanto il movimento aumenta il calore prodotto, che con il giusto abbigliamento sarà trattenuto e non disperso, mantenendo quindi costante la temperatura corporea (escluse le estremità, soprattutto le mani).
Il corpo umano è una macchina perfetta, che si adatta continuamente all'ambiente, potenziandosi. Fare sport sotto la pioggia aiuta a temprare il fisico, a tonificare i muscoli ed a potenziare il sistema immunitario. Tuttavia ci sono dei rischi che non devono essere sottovalutati, ma prontamente contrastati. 
Passo a darvi dei suggerimenti frutto della mia esperienza
VALUTARE LE CONDIZIONI DEL CAMPO: Per non mettere a rischio l'incolumità dei ragazzi, è importante valutare se il campo è praticabile per svolgere l'allenamento o meno. Cercare di utilizzare le zone di campo dove non ci sono pozzanghere e limitare il più possibile l'utilizzo di attrezzatura spigolosa (soprattutto con i bambini), visto che la pioggia forte aumenta il rischio di scivolare e cadere.
RISCALDAMENTO: Se piove forte, evitare di cominciare l'allenamento a freddo, iniziare il riscaldamento al coperto per poi andare in campo già riscaldati. Il riscaldamento deve essere completo, perché con il freddo, pioggia, vento e neve, il rischio di infortuni muscolari aumenta.
AZZERARE I TEMPI MORTI: E' consigliabile spiegare ai ragazzi tutte le esercitazioni da svolgere già negli spogliatoi prima di iniziare, in modo tale da ridurre il più possibile i tempi morti e tenerli sempre in movimento, senza farli mai raffreddare. 
ABBIGLIAMENTO: Utilizzare scaldamuscoli e maglie termiche permette di trattenere il calore prodotto dal corpo umano, evitandone la dispersione e mantenendo quindi il corpo più caldo. Con la temperatura che scende sotto lo 0, possono diventare utili scaldacollo (utilizzabili in allenamento, ma vietati in partita), calzamaglie, cappellini (non quando piove, perchè si impregnano d'acqua, meglio il cappuccio di un k-way che è impermeabile) e guanti. Utilizzare un K-way impermeabile è sempre consigliabile nei giorni di pioggia, in modo da ridurre la quantità di acqua che arriva a contatto con i vestiti e quindi con il corpo.
DOCCIA CALDA: A fine allenamento è FONDAMENTALE fare la doccia calda per riportare il corpo alla giusta temperatura. Una semplice doccia rimuove tutti i rischi di raffreddamento, riportando l'organismo alla temperatura ideale, rimuovendo tutte le tossine e praticamente azzerando il rischio di malattie da raffreddamento. Il consiglio che vi do è questo: puoi giocare anche 90 minuti sotto pioggia, neve e vento, l'importante è che dopo fai una bella doccia calda. Ho giocato sotto neve, pioggia, grandine, vento e mai un'influenza dopo!
Grazie a questi consigli possiamo svolgere tranquillamente l'allenamento sotto la pioggia senza rischiare ripercussioni sulla salute.
Buon allenamento bagnato sognatori...
Mr. Alessandro Zenone